Il medium è il messaggio. Non solo. Il medium è una modo specifico di consumo, esso porta con sè una modalità di fruizione, risultato delle sue caratteristiche tecniche, nonchè del contesto socio-culturale in cui è immerso. La visione di un medium come quello cinematografico (per comodità ci si riferisce, seppur imprecisamente, ad ogni ‘immagine mobile’ proiettata in uno schermo, o un muro) è orientata da un sistema predeterminato di attese, attenzioni, fissazioni, esitazioni, mancanze, predisposizioni, necessariamente diverse da quelle che caratterizzano la visione d’un’immagine fissa, come una fotografia, o un quadro.
Rispetto alla visione statica, quella mobile è di norma orientata alla performanza, all’evento, all’azione. Diversamente dall’immagine fissa, sia essa fotografia o quadro, nell’osservare immagini in movimento il nostro cervello elabora continuamente scenari futuri, costruendo le possibili trame in cui l’immagine mobile potrebbe evolvere. Ne deriva una più o meno inconscia frustrazione quando la telecamera indugia troppo a lungo su di un’inquadratura, quando le immagini non mostrano variazioni di sorta per tempi prolungati, quando il perseverare del presente nega testardamente l’evoluzione verso un qualunque futuro. Nel linguaggio cinematografico popolare si definisce come ‘lento’ un passaggio, o un’opera che causa un numero eccessivo di tali frustrazioni di questo tipo nello spettatore. L’occhio impaziente dell’osservatore contemporaneo, specialmente se proveniente dalle cosidette società post-industriali, è abituato al bombardamento informazionale, cioè a gestire una sovrabbondanza di stimoli, piuttosto che una mancanza degli stessi. Egli è uso alla selezione, o al subire passivo la quotidiana overdose di stimoli multi-sensoriali. Molto meno egli è uso alla ricerca, allo scavo. In tal senso l’atteggiamento dell’uomo di fronte all’immagine mobile può essere legato a quello stato d’animo che Magris descrive nella “vita come mancanza, come deesse, annientata di continuo dalla speranza che la difficile ora presente sia già trascorsa, affinchè sia superata l’influenza, superato l’esame, celebrato il matrimonio o registrato un divirzio, arrivate le ferie, giunto il responso del medico” e, aggiungiamo noi, affinchè muti la presente inquadratura in una nuova, in modo tale da tenere viva l’attenzione, rimandando continuamente il momento della pura contemplazion. Tale uomo trova arduo un certo tipo di cinema d’autore, specie se asiatico, ad esempio, o fatica di fronte ad un’ora di ripresa fissa su un branco di ruminanti stagliati sullo sfondo oceanico.
Proprio l’ultima citazione si riferisce ad uno dei video più straordinari della mostra Still Life di Tacita Dean, esposta alla Fondazione Trussardi di Milano.
Si tratta di filmati lunghi e statici, che si soffermano con perseveranza infinita su lente, appena percettibili variazioni di luce, tempo e movimento. Due pere immerse nell’alcol di due bottiglie per la preparazione dei distillati, i cui colori pastellati si mescolano imprevedibilmente al calare della luce solare. Un gruppo di mucche che si rilassano su una costa in Cornovaglia durante un’eclisse solare. Un lungo piano sequenza da un traghetto durante una traversata della manica. Una ripresa persistente e desoggettivante dell’artista ‘povero’ Mario Merz.
Per apprezzare l’opera di Tacita Dean non bisogna certo avere l’eroica e masochistica ambizione di infliggersi il supplizio di una visione d’estrema fatica nella continua, e continuamente frustrata attesa che qualcosa di significativo accada. Non si tratta di questo, non di una prova di endurance. A ciò tutto si ridurrebbe se non ci si spogliasse da un ‘modo di vedere’ l’immagine mobile che attinge contemporaneamente sia dalla Storia dell’immagine in movimento, sia dalla nostra contemporaneità orientata, come detto, all’evento, alla deesse. Questo ‘modo di vedere’ non è certo l’unico, però tempo, abitudine, esperienza e cultura lo hanno naturalizzato fino a farne una pratica reificata e standardizzata, adottata dall’osservatore a livello inconscio, che rende l’attenzione impaziente verso il possibile ‘qualcosa’ che dovrà accadere, creando insofferenza di fronte alla ‘lentezza’ dell’immagine. In tal modo lo spettatore di un prodotto ‘difficile’ come quello della Dean si divide tra quello che ‘resiste’ eroicamente e quello che esce anzitempo tra sbuffate imprecazioni, alla ricerca di una luce solare non credeva potesse agognare a tal punto.
Fortunatamente lo spettatore ha un’altra, molto meno impegnativa ed immensamente più gratificante possibilità. L’osservatore deve svuotarsi da tale ‘modo di vedere’, ridursi all’ingenua ed infinitamente paziente disponibilità che si ha di fronte all’immagine fotografica. Egli deve quindi depurare completamente l’attenzione dalla deesse – cioè dall’attesa di un qualcosa da cui siamo temporalmente separati – al modo in cui è uso di fronte alla stabilità della fotografia.
Still Life, in tal senso, può essere inteso come un monito al fruire delle immagini come se veramente di quadri si trattasse. Un monito ad arrestare la nostra impazienza, a ‘farci’ osservatori puri di quadri. Quadri mobili da assaporare con la stessa modalità con cui ci poniamo di fronte ad un paesaggio di Patirin, scrutando l’intera superficie visuale, apprezzando la bellezza estetica del corpo chiazzato della mucca che si rabbuia all’oscurarsi del sole, ricercando il particolare nello sguardo di Mario Merz, cogliendo lo sprazzo di luce, il colore, la forma. Abbandonando completamente l’impazienza, l’attesa di un qualcosa che deve accadere. Come di fronte ad un quadro, noi sappiamo che niente dovrà accadere, che il tempo di visione non serve ad elaborare aspettative più o meno inconscie, ma semplicemente a gustare ogni centimetro quadrato di ciò che abbiamo di fronte, alla pura contemplazione estetica.
Una volta cambiata modalità, possiamo letteramente bere dalla fonte visiva che offre l’artista. Il lento superamento, da parte del traghetto, di un barcone rosso che ciondola lentamente sul mare liscio della Manica assume un potere poetico sconvolgente, incolla lo sguardo all’immagine proiettata sul muro, ribalta l’ansia precendente (quella della deesse) nell’opposto desiderio che il filmato mantenga la dovuta lentezza, che ci permetta d’assaporare fino in fondo l’immersione ritmica dello scafo dentro al liquido blu. Allo stesso modo i lentissimi cambi di luce della cornovaglia in eclisse affascinano gli occhi a patto che essi si siano fatti visione, radicalmente, puramente devoti al vedere, al di là di ogni trama o evento, al punto da restare ipnotizzati di fronte a 15 minuti d’immagina fissa su nuvole, sole e vento, perdendosi dentro le forme nembiche in continua, musicale mutazione.
Still life è una mostra di rara fascinazione, una mostra che chiede molto allo spettatore, ne pretende non già attenzione, pazienza e resistenza – questo è compito che più si confà ad un congresso politico – ma piuttosto la disponibilità ad abbandonare la quotidiana praticità dello sguardo performante, a vantaggio d’una visione ingenua di puro estetismo passivo. Se lo spettatore è disposto a tanto, viene ripagato da sinfonie visive di bellezza lirica, destinate a lasciare nella memoria visiva una traccia di piacere ovattato. L’opera della Dean è un antidoto contro l’ansia contemporanea, un'ingiunzione a fermarsi e cogliere la mistica bellezza che le molteplici e luminose mutazioni di natura, esseri viventi ed oggetti offrono quotidianamente allo sguardo dello spettatore, quando esso è disponibile a farsi rapire.