Monday 20 December 2010

(Ir)responsabili dell'Ordine

http://www.youtube.com/watch?v=lsbR5L7OpLg&feature=player_embedded

l'aggressione avvenuta a Roma il 14 Dicembre sta sollevando svariate polemiche, nonchè la solita quantità d'azioni scomposte. Fascista? Infiltrato? Pazzo Sadico? Leggete i blog e i commenti, specialmente quelli del popolo Viola e delle organizzazioni studentesche, e la maggiorparte degli sforzi letterari sono dedicate alle teorie cospiratorie ed agli insulti spiccioli, con tanto di prove inconfutabili come il supposto saluto romano di un 'amico' dell'aggressore e cosi via.

Però, se leggete un po’ di post dell’area ‘attivista’, osservate i video, ascoltate le parole che vengono urlate, ben presto capirete che non di poliziotto infiltrato, nè di fascista (è evidente che il gesto dell’amico è tutto meno che un saluto romano) si tratta.

Il ragazzo faceva parte del ‘servizio d’ordine’ del corteo, per questo cercava di impedire che la camionetta degli sbirri fosse assaltata (un infiltrato non sarebbe così stolto). La vittima gli ha tirato addosso qualcosa, lui non c’ha visto più e (giustamente) innervosito lo ha (ingiustificatamente) aggredito. In effetti, e solo un pregiudiziale complottismo può impedire di comprenderlo, questa interpretazione è confermata da ciò che accade dopo:

Nonostante quella che dalle immagini sembrerebbe un’arbitraria aggressione, nessuno reagisce nei confronti del suddetto aggressore. Credete che, se si fosse trattato di fascisti intenti ad aggredire manifestanti, per di più platealmente ostendando saluti romani, nessuna reazione da parte degli altri manifestanti sarebbe conseguita? Idem per il caso di un infiltrato, non trovate assurdo che nessuno reagisca? Avete notato che a soccorrere la vittima è Francesco Caruso? Pensate che l’ex deputato non avrebbe legalmente e pubblicamente denunciato l’aggressore se di fascista e/o infiltrato si fosse trattato?

La storia è quella di un’operazione di autocontenimento finita male. E’ ironico, tragicamente ironico, poichè mostra come il ruolo di ‘polizia’ comporti una forte propensione a ricorrere all’eccessivo e gratuito uso della forza una volta che si sia posti sotto pressione. Non è la divisa che rende picchiatori. Nè semplicemente la volontà di distruggere, di creare disordine. Piuttosto il tentativo di mantenere l'ordine, e l'esasperazione che segue l'essere aggrediti mentre si ritiene di svolgere un compito necessario.

Insomma, sarà difficile per i ragazzi del ‘servizio d’ordine’ criticare apertamente gli abusi dei poliziotti quando loro stessi, se messi nella simile condizione di dover garantire un ordine - per di più senza l'aggiuntivo handicap di dover portare divise che attirano già da sole astio e violenza - se ne macchiano. In tal senso il loro (degli organizzatori) silenzio fin’ora è bizzarro, irritante. Senza nulla togliere alle responsabilità del 20enne, al tempo stesso abbandonarlo in tal modo alla pubblica gogna come fascista, infiltrato o semplicemente pazzo criminale mi sembra un gesto vigliacco ed ingrato. E’ ora che i responsabili del ‘servizio d’ordine’ della manifestazione se ne assumano, appunto, le responsabilità.

Friday 10 December 2010

What is Violence?


is violence a gaze,
a charge on the crowd, a maze of keffiyeh, placards and sound?
is violence a moving pack, the frenetic urge of thousands getting stuck, the lonely wisdom of a revolting stomach?
is violence a symmetry of green benches?
is violence the violence done erasing evidences?
is violence a silence?
is violence, coherence?
is violence a stance, gesture, fragrance?
is violence a march, is violence massacre?
is violence red warmth in the bowels, black noise on the square, the white shock of mental congestion, the grey glue of dejection?
is it rejection?
is it procrastination?
is violence being the same everyday, insane on extraordinary day, radical on mayday?
is violence throwing stones, receiving stones, carving stones, the monotonous placing of first stones?
is violence a placard, a vote, a laugh, a shivering in the cold, a spit on the batoons?
is violence common sense?
is violence the police?
is violence a matrix of control?
is violence a meretrice?
is violence helicopters hovering forever, legs taking the street in every crisis, opening a crack in every hard-cover, breaking the law into thousand pieces?
is violence a violation of pure thought, burning the cold in the freezing crowd, a hysterical dance over a Greek pillar, a purposeful sublimation in the smoky cloud?
is violence a fury, and blind, an unwarranted action, a reaction, a painful contraction?
is violence a stasis, a revolutionary hypothesis, the day-to-day mimesis, the once in a while catharsis?
is the murmur that dwells in the air when the air is gone, that resounds in the ear when is chopped off, that shines in the eyes made by punches blind?

rising pressure on shaken helmets,
bloody rivulets on filthy hairs,
non-cancerous proliferation of unsettling joy,
enveloping vapour which makes you smile,
burning wood,
burning wood,
burning wood
that keeps alive the soft tissue in which you fail.


Saturday 20 November 2010

Lega e Kant


Nella mozione presentata dalla Lega Nord contro i docenti che hanno recentemente manifestato la propria solidarietà agli 'immigrati della gru' di Brescia all'opera è un perverso Kantismo all'opera. Nella sua famosa 'Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo', Kant proponeva un illimitato uso pubblico della ragione, ed un ristretto uso privato:
il pubblico uso della propria ragione dev'essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini; invece l'uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa, come studioso, davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito. Ora per molte operazioni che attengono all'interesse della comunità è necessario un certo meccanicismo, per cui alcuni membri di essa devono comportarsi In modo puramente passivo onde mediante un'armonia artificiale il governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli. Qui ovviamente non è consentito ragionare ma si deve obbedire. Ma in quanto nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica, e si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a un pubblico nel senso proprio della parola, essi possono certamente ragionare senza ledere con ciò l'attività cui sono adibiti come membri parzialmente passivi. Così sarebbe assai pernicioso che un ufficiale, cui fu dato un ordine dal suo superiore, volesse in servizio pubblicamente ragionare sull'opportunità e utilità di questo ordine: egli deve obbedire. Ma è iniquo impedirgli in qualità di studioso di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle operazioni di guerra e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti; e un biasimo inopportuno di tali imposizioni, quando devono essere da lui eseguite, può anzi venir punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a disubbidienze generali). Tuttavia costui non agisce contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull'ingiustizia di queste imposizioni.
Consapevolmente o no (propendo per la seconda ipotesi) , Marelli e i suoi compari è a questo Kant che si riferiscono quando sostengono che i docenti che si sarebbero
dichiarati a favore degli occupanti della gru, strumentalizzando politicamente gli eventi e prendendo delle posizioni pubbliche inaccettabili, su una vicenda che non riguarda il sistema scolastico o il loro ruolo didattico
La logica è che, dal momento che
Professori e ricercatori - spiega ancora Marelli - sono pagati con i soldi dello Stato e sono quindi dipendenti della collettivita'
è inammissibile che osino criticare il loro 'datore di lavoro', cioè, lo Stato. Nel crescendo finale, Marelli, primo firmatario della mozione della Lega contro i docenti, conclude che
Se queste persone vogliono dedicare le loro energie alla diffusione di idee antistoriche lo possono fare rinunciando ai loro privilegi di baroni; nessuno gli vieta di fare politica in modo attivo, a patto che questo non avvenga a spese dei bresciani e soprattutto degli studenti che pagano le rette".
Un Kantismo perverso appunto, mescolato ad una bassa logica aziendale che depreca la critica nei confronti del Padrone (lo Stato) in quanto ingrata, per di più se perpetrata da Baroni (per la Lega il termine Baroni ha un'accezione più ampia del suo significato corrente: è semplicemente un sinonimo per docente, professore). Kant stesso, però, concedeva una libertà di critica, a patto che essa non entrasse in collisione con l'ordine topologico del sistema vigente: a patto che non si esca dalle proprie posizioni assegnate, che non ci si rifiuti di eseguire un ordine in guerra, di pagare le tasse e così via, la liberta di critica è coessenziale al dovere di cittadino. Critica che svolgerebbe il cittadino 'in quanto studioso', intellettuale, volgendosi contro l'ingiustizia con dialogo razionale, non con resistenza e diserzione.

I problemi di questo modello sono stati oggetto di infinite analisi e qui ce le risparmiamo. Senza dubbio appare evidente come esso sia una perfetta formula, seppur ammantata di liberalismo, per il mantenimento dello status quo - se ne può scorgere l'evoluzione nel sistema mediatico italiano, in cui nella sfera pubblica della tv si può dire tutto ed il contrario di tutto, a patto che nella sfera privata del proprio ruolo istituzionale non si faccia nulla. Il problema, nel caso leghista, è acuito, come detto, dall'imposizione di una logica d'azienda al rapporto docenti-Stato. Inoltre, e ancor più grave, se in Kant la critica era permessa 'in qualità di studioso', nell'equazione leghista essa è ammessa a patto che si faccia 'politica in modo attivo'.

E' facile vedere come il presupposto Kantiano prenda una piega più inquietante. Da un modello in cui il cittadino è al tempo stesso libero di criticare in pubblico e prevenuto dal criticare nel 'privato' della sua funzione di dipendente pubblico - ovvero un modello in cui restrizione e possibilità di critica coesistono nello stesso soggetto - si passa ad un modello in cui il dipendente pubblico non ha il diritto di criticare. Per ottenerlo non basta più il farlo al di là del suo ruolo. Egli deve abbandonare tale ruolo e scendere in campo. In effetti, quando Marelli critica ai docenti di essere entrati nel merito di "una vicenda che non riguarda il sistema scolastico o il loro ruolo didattico" si muove esattamente contro l'assunto Kantiano.

La critica in tal modo è ridotta alla politica attiva.La stessa logica accompagna le critiche a Saviano per l'intervento contro la Lega: ecco qua, non è più un giornalista/scrittore 'neutrale', è entrato in politica. Credo si possa annoverare anche questo tra i 'risultati' a cui il ventennio che viviamo ci ha portato. Un mix perverso tra un Kantismo degenerato e uno spruzzo del peggior postmodernismo, nella sua accezione più falsa ed idiota, il relativismo, che di colpo comporta il crollo dei contenuti della critica e il volgere l'attenzione sulle ragioni che hanno spinto il 'criticante', ovvero, quale sia il suo schieramento politico, quali le sue mire di potere.

Ed ovviamente, in tale azzeramento dei contenuti ed enfatizzazione dei doppi fini, sono le dietrologie, i retroscena ed i siparietti a dominare, la logica di quello che Facci, da un'opposta prospettiva, chiama il cretinismo bipolare, in ultimo la ragione implicita del successo e della durata del regime attuale.




Sunday 31 October 2010

Dell'insostenibile Leggerezza di Santoro



Urla. Urla la puzza che hai intorno, urla l’idiotica connivenza di sindaci, consiglieri, opinionisti, giornalisti, sciacalli, camorristi. Urla il NO senza appelli. Urlalo ai vari milioni di devoti che si autoinfliggono ogni settimana due ore di teatro degli orrori, nella vana speranza che stavolta sarà meglio, che qualche argomento verrà, alfine, trattato, che qualche risposta verrà, alfine, pretesa, anziché contentarsi di porre domande come in un gioco di società postmoderno. È il gran varietà della voce. Ognuno ha spazio, uno spazio gerarchicamente regolato, ovviamente. Il grande rivoluzionario si inginocchia un pò a tutti. Al baffuto fascista della Difesa, al contraffattore di firme della Lombardia, al leghista di turno, agli untuosi segretari del PD, alle affabulazioni auto-referenziali del signore della Puglia, alle metafore sconnesse dell’ex PM, perfino ad una sotto-segretaria così conforme da risultare eccentrica, o meglio, iper-centrica. Tutti parlano. Poi certo, se non si appartene al ceto, allora gli spazi son striminziti. Etichettati come ‘giovani’ e con l’aggiuntiva condanna di essere presentati dalla bionda di turno, le cui domande son degne di un’assemblea di terza liceo, i pochi outsiders hanno un paio di minuti di tempo per esprimersi, possibilmente entro le righe. Per carità, non disturbiamo le giacce, le cravatte e le gambe accavallate del palco di sotto. Altrimenti il conduttore rivoluzionario interviene a redarguire, ad azzittire, 2 minuti diventano 40 secondi, per ritornare ai 20 minuti di masturbazione leghista, o quant’altro. Poi accade che ci si voglia mostrare a contatto col popolo, vicini al sentire comune, e cosi il vuoto rincorrersi delle parole nello studio RAI si accompagna a collegamenti dalle zone di guerra. Fabbriche in sciopero, piazze in subbuglio, paesi isterici sotterrati da rifiuti. Gli inviati son tutti ingenui attivisti della Causa. Tradiscono l’emozione dell’universitario alla prima manifestazione. Hanno 30 secondi per spiegare, 1 minuto per cedere il microfono ai buoni selvaggi, quelli che, anni luce dalle luci dello studio, dai siparietti di Travaglio e il cabaret triste di Vauro, sono immersi nella melma di cui nello studio si parla forbitamente, e parlano. Ed urlano.
Da Terziglio un uomo urla di rabbia. Di puzza. Di orrore. Accusa. È subito azzittito, non si può parlare cosi, non si può accusare un ministro. Ci vuole rispetto. ‘Bertolaso ha una faccia tosta’? Ma non si può dire. ‘Bertolaso se ne deve andare’. E no, e no, dice il conduttore. Riprende il microfono. Un pò più calmo. Poi il tono risale. Eccolo di nuovo ad urlare. Urla. Urla. Urla di discariche piazzate su parchi naturali, di differenziata scoraggiata per profitto, di CIP6 ed altre amenità che hanno sanzionato la crisi permanente dei rifiuti a norma di legge, urla di ecoballe e di rifiuti tossici. Certo, non argomenta il tutto con razionalismo dialogico Habermasiano. In diretta per opochi secondi. Col paese che ascolta. Deve farsi sentire. Emozione e Rabbia lo sopraffanno. No. Emozione e Rabbia sono lui. Emozione e Rabbia valgono più di tutti i castelli di carta verbali costruiti in decine di anni zero. Però non va bene. No. Dobbiamo comportarci bene. Dobbiamo restare entro le righe. Dialogo pacato. Ecco. Sennò dallo studio come si fa ad interloquire? Sennò come fa il capo della protezione civile, si, quello che è ancora, nonostante tutto, il capo della protezione civile, ed ora siede tranquillo nello studio. Come fa a rispondere? E il ministro leghista? Come fa a dialogare? Allora è meglio zittire. Ecco. Rabbia ed Emozione irrompono per un minuto, l’unico minuto politico della serata. Poi Il conduttore rivoluzionario rimette tutto in ordine. E se quello che ha detto venga inteso come una minaccia? Non va bene. Abbassare i toni no? Anche il commissario straordinario – sempre lui, quello della Maddalena, dei mondiali di nuoto, quello delle emergenze nazionali per le feste paesane – fa notare che queste minacce possono fa dubitare della sua incolumità allo spettatore – che ovviamente non capisce, non può capire. Poi si lancia in un breve elogio da brividi ai risultati di Napoli e dell’Aquila. Dalla zona di guerra le urla ora sono molteplici, sovrapposte e furiose. I selvaggi delle periferie che gli intrepidi inviati di Santoro sono andati a scovare non son più buoni. Ora son cattivi. Fuori controllo. C’è rischio che la pacata atmosfera dello studio venga avvelenata. Allora il conduttore rivoluzionario sfodera il solito viscido paternalismo, e riprende il signore alterato – il selvaggio non più buono – come si fa con un bambino a scuola. “È un errore esprimersi con questo linguaggio” e dato che non c’è nulla di minaccioso, nulla di teso, nulla di alternato nei suoi contenuti, perchè non “esprimersi con più tranquillità?”. Già. Basta guardare le gambe accavallate nello studio. Loro si che son tranquilli. Perchè non si può dialogare in modo civile, si chiede il conuduttore rivoluzionario mentre rida la parola al commissario straordinario. Dalla zona di guerra solo un altro breve intervento è concesso, sotto controllo però Non si possono lasciare i selvaggi troppo liberi di parlare. Se non sanno esprimersi come vogliamo noi, con calma e tranquillità, razionalmente e pacatamente, non li vogliamo mica. Son queste le regole della sfera pubblica di Santoro. Il dialogo deve essere Habermasiamente razionale, calmo e civile. Al tempo stesso le idee e le opinioni devono circolare liberamente, postmoderno relativismo, senza rischi di smentite. Queste le regole del gioco. Il signore/selvaggio è uno di quelli che non parla ma diviene Rabbia ed Emozione mentre esprime, lui si, cos’è la ‘spazzatura a Napoli’. Il signore/selvaggio il gioco delle opinioni libere non lo vuole giocare, e quanto sente le cazzate che gli propina il commissario, non sta li calmo e seduto ad argomentare, ma gli urla contro tutta la verità della propria rabbia.
No. Non va bene. C’è troppa politica in questo gesto, e Santoro lo sa bene che per restare dov’è, a fare le sue trasmissioni e a giocare contemporaneamente il ruolo del martire, la politica deve essere detonata. Siamo tutta gente civile e razionale qui nello studio. Il collegamento si chiude. Prego signor Bertolaso, vada avanti.

Wednesday 13 October 2010

3 Anni nel Silenzio

Verso la fine di una giornata piuttosto grigia ed inconcludente, raffreddata e ventosa, ho riguardato un filmetto indipendente di Tekla Taidelli, 'Fuori Vena', che ricorda diversamente Trainspotting, SLC Punk e Amore Tossico, girato a Milano tra tossici, appunto, punkabbestia, ravers e 'gente perbene'. Niente male. Certo, e' il primo lungometraggio di Tekla, ci son sbavature e banalita' qua e la', pero' c'e' meno buonismo di Trainspotting, meno angoscia di Amore Tossico, piu' freschezza di SLC.

Vabbe'. Finito il film cerco informazioni su Tekla e trovo qualche cortometraggio. Sbokki di Vita, che avevo gia' visto, girato a 23 anni. Poi un corto di cinque minuti preparato due anni fa, 2008, in occasione del 60imo anniversario della dichiarazione dei diritti umani. si intitola La Legge e' Uguale Per Tutti, ed ha come tema, appunto, l'articolo 7: "Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione."

Narra brevemente degli ultimi due giorni di vita di Aldo Bianzino, attraverso due scene. La prima si svolge a casa di Bianzino, di notte, quando col solito tragicomico grande stile la polizia fa incursione e porta via Aldo e la sua compagna, davanti al bambino attonito. Le terribile accusa e' coltivazione di Marijuana. Coltivazione e uso personale. Via in gabbia. Questa e' la legge Bossi-Giovanardi. La seconda scena ha come protagonista la moglie, in caserma, sul punto d'esser rilasciata, che alla insistente, comprensibile domanda "quando vedro' Aldo" ottiene la seguente risposta "Martedi', dopo l'autopsia".

Vabbe'. Online - visto il silenzio assoluto dei mass media - ci si puo' fare un'idea degli accaduti. Delle incongruenze tra le autopsie. Della palese malafede delle forze dell'ordine. Della cella non sigillata dopo l'accaduto. Della definizione di morte per 'cause naturali' quando il corpo presenta costole rotte, orecchio tumefatto, distaccamento del fegato ed e' stato rinvenuto privo di indumenti, salvo una maglietta. Dell'omissione di soccorso di fronte alle grida di Bianzino durante la notte dopo il pestaggio.

Ora, ogni volta che mi ri-imbatto sulla storia di Aldo Bianzino sono attraversato da un pulviscolo di rabbie di vario grado, dalla rabbia rassegnata verso i media silenziosi - a parte il grandioso titolo di un giornale umbro la mattina in cui verra' poi trovato morto Bianzino “Brillante operazione di polizia, maxi piantagione di cannabis, arrestata coppia tifernate” (radicali.it) - a quella bruciante verso Fini, Giovanardi e tutti gli altri vigliacchi che si sono cimentati in leggi repressive ed illogiche sulla droga cavalcando l'ignoranza, a quella violenta verso gli sbirri picchiatori ed impuniti, a quella allibita nei confronti della decisione di far tenere le indagini sulla morte misteriosa di Bianzino allo stesso magistrato che ne aveva voluto l'arresto, a quella sconsolata nei confronti della malattia che, poco tempo fa, ha portato via anche la moglie, lasciando orfano il figlio Rudra, a quella furiosa nei confronti della becera idiozia popolare che con silenzio e menefreghismo ha accettato l'accaduto poiche di 'drogato' alla fine si trattava.

In questo stato di amaro nervosismo di colpo ho avuto l'impulso di controllare la data della morte di Bianzino. Non so bene perche', mera curiosita' probabilmente. Beh, attonito ho constatato che Aldo Bianzino e' morto nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 2007. 'Mentre' son qui, a casa, nell'umida notte londinese, attraversato da una rabbia sconsolata, esattamente 3 anni prima, nella notte Umbra, Aldo Bianzino, accusato di coltivare piante e poi fumarle, veniva trascinato in carcere, ed ucciso.

RIP

Wednesday 6 October 2010

Lisciare il pelo senza strappi

Da sottolineare il discorso di Lerner dal minuto 9.50

In poco meno di due minuti distrugge la logica leghista, nonchè la sciatteria idiotica della sinistra che continua a ragliare sulla necessità di 'ascoltare il territorio' quando il vero punto, fondamentale, dello 'stare sul territorio' non è ascoltarlo, così assecondandone i tic vari ed eventuali, ma quello di ri-territorializzarlo, ri-produrlo, in un processo a spirale in cui il partito modifica e viene modificato dalla comunità in cui finalmente si 'sporca'.

Infine, e non meno importante, la lezione di Lerner si applica devastantemente alla logica Berlusconiana del 'decisionismo', strombazzata come la vera novità della politica the PDL rispetto all'eterno tentennare della sinistra. Berlusconi non è mai stato decisionista, come la sua dipendenza assoluta al sondaggismo compulsivo dimostra. Lui ha sempre cercato di piacere e quindi, nelle parole di Lerner, di lisciare il pelo al suo elettorato. La versione 'decisionista' non corrispondeva ad una lungimiranza politica pronta a farsi carico di critiche e polemiche nel nome di una visione 'futura', che andasse oltre il pantano dell'applauso contingente. Al contrario, corrispondeva semplicemente al 'dar voce' agli istinti da sottobosco così tipici dell'Italiano medio, istinti che portano ad alzare la voce e menar le mani - quello che il Governo ha fatto finora, e certo non solo figurativamente viste la molteplici occasioni in cui son volati manganelli.

Ora, tutti possono facilmente intuire che alzare la voce e menar le mani non corrisponde a quel decisionismo, giusto o sbagliato che sia, che una certa politologia di destra giustamente un tempo rivendicava.

Inoltre, ciò che succede oggi è che, spaventato per crisi interne e perdite di voti a favore della lega, il decisionismo non è più nemmeno scimmiottato. Cattaneo, l'altroieri all'Infedele, sembrava un apprendista equilibrista, oscillando pericolosamente tra logiche leghiste - ma incapace di perseguirle spavaldamente fino in fondo, come appunto fanno i leghisti - e logiche pseudo-decisioniste, che però, messo alle strette, negava clamorosamente, quando, nella tentennante (equilibristica) risposta al discorso Lerner, nota che 'il compito del leader è di farlo [indicare la via con lungimiranza etc] senza strappi'.

Senza strappi?

Monday 27 September 2010

il vento fa il suo giro - Giorgio Diritti (2005)

Il vento, i respiri che si condensano nell’aria frizzante della valle del Monviso, panorami di possibile elezione, di claustrofobica chiusura, come l’aria di chiuso appunto che si respira nelle cene, luce tenue e legnosa, testa sul piatto, poche parole brusche, sicure, taglienti.

Un ‘forestiero’ in questo contesto è come un sasso infangato in uno stagno, smuove ed intorbidisce le acque, ma non è lo smottamento ad esser problematico, in esso vi è l'euforia del nuovo, il paese che accoglie in fiaccolata la famiglia del francese, gentilezza ed altruismo a profusione. Problematico è il riassestamento, ritorno all'equilibrio, l'equilibrio famelico della comunità, dell'integrazione.

Philippe arriva come gettato nella lenta routine montana, corpo estraneo per eccellenza, le capre, la sua moglie pericolosamente attraente, e lui, pensatore più o meno libero, allergico alle totalizzazioni, sospettoso del lato asimmetrico della tolleranza e dell'oppressione degli schemi prestabiliti, convinto assertore della necessità della follia 'ogni tanto', ricercatore di alterità e pace, destinato all'ingenuo fraintendere la vastità delle montagne, delle valli e dei pascoli scoscesi, una vastità spaziale che - errore fatale! - pretenderà essere anche licenza di spaziare, col pensiero e con le capre.

Il villaggio è uno di quelli che muore, lento, di sete e solitudine, di fronte all’immensa poesia delle Alpi, poesia che non riesce più a sopportare. Sommerso dalle nuvole di un passato che sembra remoto, l'epica narrazione dell'evento 'fondativo', la spontanea condivisione di sforzo, rischio e fatica che spinse gli abitanti durante la guerra a trasportare e nascondere il fieno di chiesa in chiesa, da valle a monte, allontanandosi dalla macchia nera tedesca che s'avvicinava. Un 'comunismo' di guerra di cui ormai il ricordo permane in riti e superstizioni vuote, o in coloro che il paese l'hanno abbandonato. Oggi, ad accogliere il francese, è invece un paese dal liberismo 'spaesante', in cui anche il più inutile, trascurato pezzo d'erba è difeso dall’intrusione del forestiero e delle sue capre, poichè la proprietà privata è sacra, anche se di prato dormiente, costone di monte dimenticato, si tratta.

Il francese è sincero ma distratto, tranquillo ma diverso, ed inevitabile l'escalation di sospetti, pettegolezzi, dispetti e tradimenti. La sua pop-filosofia s'imbastardisce a poco a poco assieme alla sua speranza, negli anfratti umidi delle stalle, nelle malelingue contagiose di un paese in via di putrefazione, come la carcassa del maiale che Philippe abbandona in una scarpata, gesto stupido e noncurante che infetta irrimediabilmente la valli, i pascoli, forse il latte delle mucche, sicuramente le coscienze del paese. Putrefazione incontra putrefazione, è come se due essenze si intersecassero nella figura del maiale, il francese come corpo estraneo infetto da dover in qualche modo espellere, il paese come corpo comunitario putrefatto, da dover in qualche modo purificare.

La cinepresa segue gli eventi silenziosa, quasi cine-verità, docu-fiction, attraversa i linguaggi sovrapposti, italiano, francese, e soprattutto la loro sublimazione nell’occitano, sordo e monotono ma con scarti improvvisi, come capra di montagna.

La festa di paese è una scena a sé, con i contorni d’un sabba. I tradimenti avvengono con modalità attese ma al tempo stesso strane, con conseguenze che non sembrano toccare in pieno i protagonisti maschili, specie Philippe, sempre più assuefatto, rassegnato a dover giocare la propria parte, a dover guardarsi imbruttire nelle parole e nei gesti. Intanto le processioni e i funerali di paese si svolgono con la solita, comica e burocratica pomposità. La cinepresa è anch'essa in processione, segue capre e maiali come uomini e bambini, si infila insieme alle macchine sotto le gallerie nella speranza di uscire altrove. In un momento etereo, la macchina da presa lascia gli officianti al funerale e si dirige fuori, lenta, quasi sospesa, come cercar l'aria.

L’aura fa son vir. Il vento fa il suo giro, ti intrappola, ti spezza, e tutto resta uguale, ristabilire l’equilibrio dopo la crisi, solo questo conta infine, espellere il corpo estraneo, mantere l'equilibrio della putrefazione comunitaria, anche a costo di dover eliminare gli ultimi grumi di vita che la minacciano dall'interno, estrema auto-purificazione per mezzo di sacrificio: e così sarà l'immancabile 'scemo' del villaggio ad impiccarsi perchè soffocato da tanto fetore, mentre la famiglia francese e le sue capre si spostano, forse, ad infestare un nuovo paese, inconsapevoli virus in un mondo di pervasiva xeno-phobia...

Sunday 20 June 2010

going to the no-go

Day begins with a good breakfast at Service Station, Melville, which is good propeller for a long walk along Rustenberg Road, Empire Road and Jan Smuts Avenue - walking across the big highways of Joburg, with the midday sun warming me up notwithstanding the chilly wind, is surprisingly regenerating, especially now that - it is Saturday - the big highways are almost empty, a sight which transmits peace, in a weird way.

As adviced by the waiter at the cafè, I stop at a gallery in Juta street, which holds some nice paintings and very cool design tables, chairs and lamps, very Dutch, pretty expensive.

100 metres and I'm at Kitcheners Carver, one of the oldest pub in Joburg, I'm told, and as I enter I'm drawn back in old, smokey, stinky England, oh, the old carpeted pubs with that lovely stink of tobacco and beer, 6-7 people around the bar, drinking wine, beer or cuba libre, watching Australia-England, rugby, England is leading 21-20 into the last quarter, a red-faced man with white hair and bottled beer in the right hand shouting "dirty English Bastards" repeatedly, while what seems like the pub manager standing and mocking the "enga-land enga-land enga-land" chant. How could I possibly miss it? I stop an half an hour, watching the customers watching England keeping the tiny lead until the end, more 'dirty English bastards' on the way, whilst old-ish ladies are drinking white wine and playing with their grey, greasy hair.

I go out in the sun and end up in Constitution Hill, the big complex, part museum, part memorial, part constitutional court, built on the site of the notorious Old Ford, where different human beings spent hours and days of anguish and agony, sometimes death, Mandela and Gandhi included. The place is pretty empty and has a vaguely spooky atmosphere, with great 360° views over Joburg. I check out some paintings in the main building, two or three really impressive, then I step into the constitutional court, wandering around the chairs and carpets emanating - at least that's what I pretend them to do - the spirit of the guardians of the most progressive constitution in the world.

Time to get real. I step out, walk into klein street and after 100 metres I'm abruptly transported from the ghostly peacefulness of constitutional hill to the no-go area par excellence, never-go-there Hillbrow. With all the negative advises as regards going there, I'm feeling a bit like a stupid explorer who'll soon going to find what his indifference deserve. I have a solid imaginary of Hillbrow as a place of crime and violence, degrade and fear, as well as a place in which the stranger - that is, me - immediately becomes the target. In this I'm not very different from the majority of Joburgers I met, whose threatening stories of Hillbrow never matched empirical evidence - Hillbrow only existed in their imaginary, a patchwork of anecdotes, stories, news and personal fears. I don't know whether they are right or wrong, surely, however, they never saw what they are talking about - so I decided to see.

The impact of Hillbrow is quite direct. The sleepy Saturday morning Jozi of some metres above now turns into something completely different. Two days ago I asked one girl leaving in Hillbrow about the place. Yesterday I asked another guy. Always the same answer "it's busy". Yes, it is. I never saw so many people on the pathways doing, literally, nothing. From the emptiness of Juta street I find myself negotiating my way through a crowd, or rather, scattered crowds of people, inevitably looking at me - no whites around, and I won't see whites for the next hours.

I'm a bit nervous. The fearful immaginary of Hillbrow is overlapping with the reality, and every time I have to pass through groups of 10-15 men looking at me - of course, not having anything better to do - I can feel some tension building up. I remember pretty well the words of the policeman though "never look disorientated, always look confident, rhythmise yourself", so I do, going with the flow in Hillbrow, playing distractedly with a matchbox, looking straight, walking fast, exchanging quick, confident glances, greeting the people I bump into. They should know I know the place, I know the street, I'm not an idiot ended up here by chance, therefore if I know the place, I'd be a complete moron to bring cash, fancy mobiles or cameras with me, no? Hopefully, this would be the logic of the would-be mugger. Hopefully, this is just paranoia, I'm only in one of the poorest place in the city, where 60% of the people have no job, mostly immigrants from Nigeria, Congo and so on, so it's normal that the streets are packed with people looking for the sun, away from the cold of the overcrowded buildings they mostly squat. Of course, this is generalisation, and I'm into a generalising mood during my 'confident' walk. In the end I end up in Joubert Park, another no-no no-go. To my surprise, a screen has been set up here as well. A mini Public Viewing Area providing around 30 people sitting in the sun a low-quality coverage of Netherlands-Japan. The Dutch are not playing very well, but they are winning, which suggests me their time could finally have come.

The rest of the park is packed with people, lying on the ground, eating, sleeping, chatting, a normal park under the winter sun, and I stand there for a bit, trying to imagine what makes a place a no-go area, to what extent the no-go label capture the essence of a space, infusing its atmosphere. Joburg is a crazy place. In the middle of one of the no-go areas of the city, a park where all people I met, black and white, policeman and guidebooks, strongly advised me not to go, well, sits the Johannesburg Art Gallery. A bit like having the MOMA in the middle of the dodgiest side of the Bronxs, the 'galleria d'arte moderna' at the centre of Scampia.

The gallery is great, I enjoy a Cuban exhibition with wonderful pictures and nice paintings and installation, then I end up in a room transmitting the Italy-France 2006 Final, in 12 different screen, each one from a different perspective, either focusing on only one player, showing a computer image with dots as player and lines drawn by the ball, the camera director directing the filming of the match between different angles and slow-motion, a Pro Evo-like image the same game etc. When I arrive the extra-time is starting, and I cannot miss the headbutt. Predictably, the whole second extra-time has a camera following only Zidane, which allows me to follow the building up of momentum, the way the head is slowly ignited then to mutate into a weapon, then the infinite minute in which Zidane stands, waiting for the inevitable sentence, whilst the majority of the world don't understand yet what's going on. Zidane is still, his mind spinning around, or just blank, he's breathing and sweating, looking anywhere, already beginning to unfasten the captain's band. They are interminable seconds. At some point Buffon arrives, you can read some bits of his labial, he's telling Zizou that he understands the moment but that he cannot behave in that way, that's a bit too much. Zidane nods, as hypnotised, looking-past Buffon. Then the referee arrives with the red card. Zidane seems to be accepting his fate, he tries to shake the referee's hand, but the latter he's a bit too tense for any theatrical gesture - whatever its sincerity: he just kicked out the world's best player from the world cup's final half-way through the second extra time, with a straight red card. The rest is history.

I get out and chat with the cops, who assure me that nobody would do nothing here in Joubert Park, as metro police as well as south african police is there "there is so much police than nobody would dare doing anything wrong", assures me the policeman. Fine.

I head back, finding myself in the busiest streets I ever been, cars everywhere, the air is saturated with smog, and all the pathways are full of people and street markets, food and locks, vuvuzelas and beanies, I keep walking until ending up in Park Station, the main railway station in Joburg, whose surrounding is, again, strongly advised against walking into. Whatever. I walk a bit more and I end up in the bus station, or rather, the mini-taxi station, where I got stuck in the middle of hundreds of mini-bus seeking to go out of the big hangar, whilst people everywhere are shouting, jumping on and over the buses, fighting (verbally) with the drivers and going about their everyday lives. At some point I'm not able to go out from the hangar. There is not space for walking, buses are everywhere, interweaving together, filling up promptly any crack opened between the vehicles. It's almost impossible to breath, it is like standing inside a gallery with hundreds of vehicles simultaneously accelerating and braking, blasting the horn... I decide to contravene one of Joburg central district's golden rules: never ask for direction. I ask for direction, anyway I'm stuck behind a barrier of vans and smog, nobody could see my moment of défaillance. I was just one street north than the one I'm looking for, Bree Street - the words of a South African guy I met the first day I arrived resonates "whatever you do, never go to Bree Street". In the end Bree Street is one of the main arteries of the CBD, a street in which you cannot avoid ending up into if you want to walk around the CBD - then again, that guy didn't have any intention to do that.

I'm walking fast now, slightly relieved as I'm into relatively known territory, and the Mary Fitgzerald Square's fan park is about 500 metres away. Suddenly, people gathered at a street corner. 4 police cars are parked and a policeman is fencing the tiny corner with a 4x4 'crime scene' tape. A curious crowd is gathering, unable to understand what's going on. The policeman now swap the white gloves with another policeman. the latter begins folding a red towel which was on the ground, and puts it into a plastic bag. In the back of the police car a guy seems to be talking excitedly. At some point one man leaves the crowd and glances inside the trash can inside the 4x4 crime scene zone. He retreats his look horrified and goes away, insensitive to the questions - mine as well - about the content of the trash can. More people glance, more people run away horrified. I don't want to look, so I keep on asking the people who already gazed into. All of them are just shocked and unwilling to talk, walking away swiftly. Finally a woman eager to talk tells me the secret "a baby, a small baby, there's a small baby". Right. That guy just dumped a dead baby into the dustbin. Or the baby was alive? don't know, that's enough for my day. I keep walking towards Mary Fitzgerald square, relieved of having been able to hold my curiosity, avoiding to fix into my mind an image my brain will be content without.

At the fan park the game is ending, Ghana has played all the second half 11 against 10, without managing to score. 1-1 is the final result, Australia has still hopes, and if they keep on playing in this way I predict a stunning win against Serbia. I talk to the policeman at the square, they tell me that all they look at is whether people have knives or guns, or whether they start fighting. "no problem so far". Control are so low, though, that I can enter with a bag unsearched and another one only quickly glanced into. Whatever.

Temperature is quickly decreasing now that the sun is gone, it's going to be close to zero soon. I find another mini-taxi station and jump on the one to melville. The driver puts me at the front seat, which means me and another Italian guy sitting besides me, will have to do the maths, as the ten people sitting behind start to give us different amounts of money with different fees - 3 for 8.50, 2 for 7.50, 1 for 8. We keep all the money and then pass them to the driver who, of course, contemporaneously drive, count the money and shout at the passengers in some local language intermingled with a well recognisable "you're short man!"

Monday 14 June 2010

Walking and the City

Tampa è una città costruita per macchine. Camminare è tabù. Mentre vado investigando la possibilità di andare in spiaggia a piedi, il portiere dell'albergo mi guarda sorpreso, prima di sconsigliarmi vivamente ogni azione 'pedonale' di tal fatta: 'we'll call the shuttle bus'. E con lo shuttle bus - nome geograficamente più che adatto - mi dirigo diligentemente verso la playa, per scoprire che la distanza dall'albergo ammonta a non più di 800 metri. No country for walkers. Una città per macchine non si limita ad atrofizzare le gambe, agisce anche su come il cervello valuta le distanze, sulla pigrizia e lo stupore che si attaccano ad azioni per cui dovremmo esser fatti - se è vero che l'uomo emerge dalla scimmia proprio in quanto bipede, camminatore in postura eretta. Poi scopro che, in effetti, raggiungere la spiaggia a piedi è esperienza vagamente disturbante. Prima di tutto si deve attraversare una super autostrada, due sensi per una decina di corsie. Tuttavia c'è un semaforo e delle strisce pedonali, ed un pulsante da premere per esibirsi in un raro tentativo di traversata dell'asfalto. Dopo circa 5 minuti il semaforo diventa verde, poi mi annuncia che avrò trenta secondi per passare dall'altra parte senza essere tranciato dagli avidi SUV che mi fissano impazienti a destra e manca. Corro rapido come se stesso camminando su un tronco sospeso sulle rapide. Dopo questo stunt, avrò solo da percorrere 800 metri nel pratino sul bordo dell'autostrada. Mai sottostimare i consigli dei portieri.

Downtown Tampa è un reticolo di stradoni, grattacieli, palazzoni, marciapiedi scarsi e precari, svincoli e sopraelevate. Non vedo umani, solo macchine in movimento, cammino per decine di minuti da una avenue ad un drive, percorrendo strisce pedonali i cui semafori scandiscono tempi d'attraversamento olimpici, 12 secondi, così che arrivo a malapena in tempo, in leggera corsetta, immaginando con un ghigno la sorte della proverbiale vecchietta che si accingesse all'impresa. D'altronde nessuno cammina. Non incontro nessuno. Poi mi dicono che i miei colleghi di conferenza avevano intenzione di passare la serata al centro commerciale, la shopping mall, la versione di Tampa della piazza italiana, dove la gente esce a prendere il fresco (condizionato) e consumare in una delle varie catene. Preferisco camminare ancora, nel buio, tra macchine sfreccianti, aggrappato a minuscoli marciapiedi e semafori severi, fino a trovare un bus che mi riporti da dove vengo. Non c'è posto per pedoni a Tampa.

Alle sei di mattina albeggia a Nairobi, e mentre il tassista mi accompagna all'aeroporto sfrecciando preoccupantemente veloce per Mombasa Road, vedo ovunque gente camminare. Non ci sono marciapiedi, solo terra ai lati della strada, una lunga strada che porta fuori città, e centinaia di persone la percorrono, a passo spedito, a volte attraversando la strada a centimetri da camion carichi di cassoni, lunghe falcate di tute Adidas, jeans e completi beige e grigi, andature serrate, di chi è abituato a camminare, a pazienza e determinazione. Anche qui la città è ostile ai pedoni, per lo meno dove mi trovo lo denotano la mancanza di marciapiedi e le distanze che la gente si trova a percorre dall'alba. Però i pedoni si riappropriano della città, la sfidano con passi lunghi e costanti, diventano essi stessi macchine, lente ma affidabili macchine che dividono la strada con taxi e tir, nella polvere dell'alba keniana. Ogni tanto gruppetti di corridori sfrecciano a non più di un palmo dal traffico a cento all'ora della superstrada, tute scure e corsa veloce, sembrano scooter mentre zigzagano tra la processione dei camminatori tentennando pericolosamente verso la strada, tremila siepi, e forse più.

Johannesburg è cosi grande che il solo menzionare il camminare fa sorridere l'interlocutore come si sorride al bambino che propone sulla spiaggia di raggiungere a nuoto l'isola di Ponza. Decine di chilometri separano i quartieri, sviluppati indipendentemente come un patchwork urbano, ognuno con la sua logica toponomastica, topografica e geografica, tagliati da autostrade sopraelevate che lasciano poco spazio all'immaginazione del flaneur Baudeleriano. C'è di più. Non solo improbabile fisicamente, il camminare è anche un gesto infuso di paura. Interi quartieri sono 'better not to go', di notte, ovvio, ma anche di giorno, se possibile. Non si tratta però di disperatamente lontane banlieu parigine o 'projects' americani. Qui zone residenziale e commerciali stanno spalla a spalla con agglomerati derelitti di palazzi occupati e spazzatura in attesa di netturbini che arrivano quasi mai. Hillbrow e Berea, ad esempio, sfumano impercettibilmente per lasciare spazio a Newtown, al centro del notorio CBD, il centre business district, downtown Joburg, ovvero, il centro della città. Nella piazza di Newtown, Mary Fitzgerald Square, c'è un Fan Park durante i mondiali, maxischermo e food stalls, una massa di gente a veder le partite rinchiusa dentro un recinto e controllata da varie decine di guardie di vario tipo, nazionali, cittadine, private, volontari. L'atmosfera festosa della piazza, letteralmente sorvolata dai piloni dell'autostrada M1, è una bolla in cui si beve birra e si fanno foto in tranquillità. Uscendo i cancelli si percorrono non più di dieci metri e ci si trova in Bree Street, dove un solerte joburghese - abitante di una delle tante gated communities chirurgicamente asportate dalla città per mezzo di muri, telecamere, porte magnetiche e guardie - mi suggeriva di 'not to go there, never ever'. Altri 5 minuti a piedi e si è ad Hillbrow, la 'no-go area' per eccellenza secondo le varie persone che incontro, bianchi e neri, sconsigliandomi vivamente di andare, giorno e notte. Il poliziotto mi espone un'interessante ma dilemmatica strategia. 'never look disorientated, always look confident, walk quickly, do not pick up your phone, your camera, your map, never your map, and please, if you can, never walk alone'. Lo squisito dilemma dello straniero a Joburg: camminare spedito e sicuro di sè, non consultare mappe ne persone circa il tragitto che ovviamente si ignora: meno indizi della propria estraneità al luogo traspaiono, meno rischi di incorrere 'into troubles'. Magari perdersi, ma sempre con confidenza e sicurezza. Il camminatore di Joburg è un camminatore di quartiere che si sposta sono dentro la propria bolla, sia che sia una gated community dall'aria sterilmente inquietante, un quartiere middle class con graziose villette invisibili dietro gli enormi muri di cinta, una ex-township dove i prefabbricati si fondono con le shanty towns - un camminatore di quartiere, oppure un irresponsabile, che cammina a passo rapido e confidente, senza sapere dove stia andando...

Saturday 23 January 2010

Tu Devi Mutarla

Torso arcaico di Apollo

Non conoscemmo il suo capo inaudito,
e le iridi che vi maturavano. Ma il torso
tuttavia arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,

resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il volgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
fino a quel centro dove l'uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
e non scintillerebbe come pelle di belva,

e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
perché là non c'è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla.

Rainer Maria Rilke